Ci sono voluti anni e anni per diventare l’intellettuale Rita Bellacosa, colei che tutti ammirano per la cultura e la potenza della mente. La mia gavetta è stata allucinante, disperata, moralmente e fisicamente logorante. Credo di essermi sempre sentita diversa dagli altri, ne ignoravo, tuttavia, da ragazzina, il motivo. Sentivo che sarei diventata 'qualcuna', ne avevo una percezione interiore netta e forte, pur se emotivamente nutrivo un’ambizione che mi soggiogava e, nel contempo, mi metteva spavento. Ho trascorso la mia infanzia in un paesino di campagna piccolo, sperduto, ignorato dalle carte geografiche. Un pugno di case circondate da terreni interminabili, il fiume, la bici arancione 'la porto senza mani, senza mani', il mio mangiadischi arancione, i pattini, i sogni di una ragazzina ingenua e perbene ignara delle contaminazioni del potere e delle postazioni di comando frutto di intrallazzi. La vita scorreva lenta intorno mentre in me strane alchimie di pensieri di gloria mi imponevano di divorare libri dove trovare le risposte alle mie innumerevoli domande. Una sete interminabile di sapere spinta dalla logica di accumulazione di nozioni, esempi, insegnamenti. Era il mio mondo chiuso, da dove ogni tanto evadevo spedita da qualche parte dai miei. Imparai a leggere e a scrivere a quattro anni e a parlare in francese, una teppistella molto simpatica e carina con la passione dei libri. Mio nonno mi diceva di essere ambiziosa perché 'se non sei ambiziosa non sei nessuno' e aggiungeva 'dalle stalle alle stelle, ricordati, MAI viceversa'. Così mi sfiancavo sui libri, fin dalle elementari, studiando argomenti prima che fossero spiegati a scuola per saperli prima degli altri, per eccellere in qualsiasi circostanza. Feci la mia prima notte di studio in quinta elementare: il Giappone, che non venne spiegato. Tenni da parte questa notte e agli esami di scuola media presentai un libro scritto da me proprio sul Giappone che ebbe un enorme successo. Ero brava, bravissima e a dieci anni ebbi il mio quaderno di computisteria arancione colmo di espressioni in francese, in inglese, vocaboli aulici, pensieri scelti, stralci di opere letterarie, frasi in latino, miei scritti e...l’alfabeto greco. Allora non sapevo quanto tempo e quanta speranza avrei donato alle lingue antiche e quanto entusiasmo…
Agli esami di terza media fui superba. La prova in lingua francese consisteva a scelta o in un questionario o un tema. Nessuno scelse il tema, troppo difficile. Io feci il questionario e volli fare anche il tema, in francese, su Napoleone. Il presidente delle commissioni venne a saperlo e volle incontrarmi :' Voglio conoscere questa ragazzina che sui giudizi indicano geniale, che scrive temi che vengono esposti e che prende 10 e lode ai compiti di matematica...' Mi disse:' tu diventerai un personaggio grande, di te si parlerà molto'. E, per non smentirmi, agli orali tradussi all’impronta, ossia senza dizionario, un brano latino dal titolo Il cavallo di Troia. Dettagli, riferimenti, anticipi che il Fato mi metteva davanti, infiniti elementi concatenati magicamente tra loro in un rebus indecifrabile all’epoca. Qualche anno più tardi sarei andata a Troia, da studiosa ed archeologa. Risultata la migliore di tutta la scuola, mietuti successi esaltanti con i miei temi esposti in bacheca, con una menzione speciale quale conoscitrice della lingua latina, con la mia acerba sensualità ma pensieri già sofisticati, decisi di affrontare gli studi classici. Finalmente! Avrei potuto bearmi nello studio delle opere classiche latine e greche… Ed eccomi, in quarta ginnasio, nel
paese vicino che mi sembrava una metropoli. Entrai impaurita come varcassi la soglia
di un tempio, attraversai le colonne d’entrata e giunsi in classe, la sezione più severa con allieve che vivevano in un ambito sociale differente dal mio e che mi scrutarono subito con sospetto e presupponenza facendomi sentire a disagio: ero la
ragazzina di campagna, eccellente nel suo paesello ma che ora si trovava in un nuovo contesto sociale da affrontare ed in cui battersi per essere la N.1, come mi era
stato insegnato. La docente di francese ci disse di presentarci; lo feci ma aggiunsi:' Vorrei fare una precisazione, si, vengo da un paese di campagna ma vorrei
essere giudicata per la mia preparazione e non per la provenienza'. Tanto era forte
in me il disagio della mia provenienza! Ritina! E studiavo, studiavo. La mattina
presto il pullman, l’unico, poi chilometri a piedi, poi scuola, di nuovo chilometri,
poi studiavo dalle 14:30 a mezzanotte. Alle cinque del mattino mi alzavo per
ripetere. Il sabato e la domenica ripetizione generale di latino e greco. D’estate
ripetevo i programmi di latino e greco svolti durante l’anno passato ed imparavo i
successivi per saperli già quando li avrebbero spiegati l’anno dopo. In V Ginnasio
cominciai a dare lezioni private di latino e greco per mantenermi agli studi. Non sapevo cosa avrei dovuto passare per arrivare ad ora, le notti sui libri, i viaggi
con i treni alle tre di notte nelle stazioni fredde e l’umiliazione mai esibita, di trovarsi sola in una grande città e non avere i soldi per mangiare. Avere fame non è
avere appetito, soprattutto quando non mangi da tre giorni ed hai di fronte gente
che mangia e si sbafa e tu non hai i soldi perfino per un caffè. Non ho mai smesso
di lavorare e lavoro 25 ore su 24 ogni giorno, festività comprese, mettendomi in
discussione ogni giorno per essere all’altezza dei sogni e dei progetti di quella
bellissima ragazzina che studiava con davanti a sé il faro del suo luminosissimo
futuro.